La nostra rivista è sempre particolarmente attenta all’editoria locale, settore dove spesso si nascondono piccoli capolavori poco conosciuti, è il caso di Giancarlo Giuliani col suo Nero: dramma in provincia.
Giancarlo Giuliani ha speso gran parte della sua esistenza nell’insegnamento alle scuole superiori, parallelamente ha però portato avanti una discontinua carriera nelle pubblicazioni, poesie e saggi in primis. Negli ultimi tempi però, dai cassetti dell’autore, sono riemersi appunti e opere di tanti anni e così Giuliani si è riscoperto autore molto profilico, dando alle stampe per Tabula Fati alcuni romanzi storici, raccolte di versi e il giallo di cui vi parleremo oggi, Nero: dramma in provincia.
Nero è un giallo classico e sperimentale al tempo stesso; classico per lo stile limpido e secco dell’autore, per alcuni personaggi che rimandano ai grandi del giallo anni ’60 e ’70. Sperimentale per la scelta di mostrare subito ai lettori l’assassino – o gli assassini? – e per l’analisi psicologica dei personaggi principali. Si tratta comunque di una lettura veloce e godibile, quasi cinematografica, sicuramente l’ideale per approcciarsi a un autore dalle tante sfaccettature. Le nostre domande.
Una vita a insegnare, pubblicazioni di poesie, narrativa e saggi. Qual è la vera “vocazione” e passione di Giancarlo Giuliani?
Fin da ragazzo, ho sempre pensato che la condivisione del sapere sia una meta da perseguire, sempre e comunque. Di qui la scelta dell’insegnamento nelle scuole superiori, lasciando intenzionalmente una possibile carriera universitaria. Dunque, se di vocazione si deve parlare, ammetto di “essere nato insegnante”. Scrivere è l’indispensabile corollario. Ho sempre riempito taccuini e taccuini di osservazioni, versi, disegni, un po’ di tutto. Direi che è una mia seconda natura. Sono affetto da inguaribile “curiositas”: basta che si verifichi un qualsiasi stimolo e ho subito il desiderio di approfondirlo, di farne una parte del mio essere nel mondo. Ovviamente sono consapevole di quanto ciò sia utopia, ma è più forte di me esplorare il più possibile ciò che mi circonda.
Come nasce Nero, perché l’idea di un giallo?
Nero è una sorta di storia a puntate. la prima parte del libro era stata scritta come radiodramma, con l’intenzione di proporne una lettura, appunto, radiofonica. Di qui uno stile estremamente secco, quasi spartano nel suo usare il minor numero di parole possibile. La lettura radiofonica non è andata in porto per varie ragioni, così il testo è rimasto nel cassetto per un po’, finché, rileggendolo, non ho sentito che c’era un possibile sviluppo. Di qui gli altri due capitoli, con l’inserimento di nuovi personaggi e un leggero arricchimento dello stile di scrittura.
Il romanzo è piuttosto classico nel modo di narrare, tuttavia la particolare scelta di mostrare al lettore fin da subito l’assassino – un po’ come accade nella serie Colombo – salta all’occhio. Come mai questa decisione? Non c’è il timore di togliere un po’ di suspense?
Sì, forse il lettore può restare deluso dal fatto che il protagonista della prima parte compia il suo delitto nelle pagine 1 e 2. Ma non desideravo creare un’attesa del tipo “si investiga e si cerca/trova il colpevole”. Volevo costruire una storia sulla banalità di quello che chiamiamo male, sul suo celarsi dietro apparenze insospettabili, sul suo ridursi alla fine all’esito di un groviglio psicologico che conduce gli uomini, a volte, ad azioni efferate. I protagonisti si svelano particolare dopo particolare e spero di essere riuscito a dare un quadro credibile di situazioni “al limite”.
Ho trovato le ambientazioni senza tempo, nonostante qualche accenno a internet. Il commissario Giorgi in particolare mi ha rimandato ad altri personaggi tipici del genere, anche nel rapporto con l’ispettore Bonanni; mi viene in mente il Duca Lamberti del grande Scerbanenco ma anche il commissario Ricciardi di De Giovanni. Quali sono i riferimenti nella storia del giallo?
Non vi sono riferimenti precisi, ma è certo che le nostre letture e le nostre esperienze, a tratti inconsciamente, prendono spazio nella pagina. Il mio investigare preferito è Philo Vance e certamente in “Nero” non vi è traccia del suo modo di essere. È certo comunque che dei tratti comuni con i personaggi di cui mi chiedi vi siano, anche se non consapevoli, direi.
Gaia Altieri è una dark lady da antologia. Si è ispirato a qualche femme fatale in particolare?
No, ho cercato di pensare come una donna, con infinita presunzione, direi, vista l’insondabilità del “pianeta donna”. Ma ero attratto dalla sfida di dipingere un personaggio femminile decisamente lontano dagli stereotipi, nonostante abbia scelto di descriverla fisicamente proprio per mezzo di uno stereotipo: bionda, occhi chiari, carnagione chiara. Un contrasto, voluto, con il groviglio del suo mondo interiore.
Molti personaggi sono divisi tra l’apparenza di una vita perfetta – il rettore, i professori – e il lato oscuro che prende il sopravvento. Scrivere di queste pulsioni è in qualche modo catartico? C’è qualcosa dell’autore in questi personaggi?
In ognuno di noi si celano pensieri a volte poco ortodossi, in alcuni casi inconfessabili, perfino. Occorre avere il coraggio di guardare in questo lato oscuro e di prenderne le distanze. Scrivere è sempre catartico, a mio modo di vedere, quindi forse sì, qualcosa di me c’è, soprattutto nel personaggio di Marco Naldi, alcuni atteggiamenti del quale sono tracce della mia vita.
La città di provincia teatro dei delitti non è ben definita ma somiglia molto a Pescara. Solo una mia impressione o è così?
L’assenza di connotazioni geografiche precise risponde all’esigenza di non far sì che nella mente del lettore l’ambiente prevalga e costituisca magari un alibi per i personaggi. Resta, certo, la provincia come luogo dell’azione, ma ho inteso farne una sorta di elemento latente. Quanto a Pescara, direi che la libreria del primo capitolo e il vecchio edificio dell’università sono certamente “locali”, ma niente di più.
Ha scritto anche romanzi storici. Si trova più a suo agio con Pitagora o coi serial killer?
Ho scritto due romanzi storici, uno sul giovane Pitagora, riempiendo con l’immaginazione i vuoti di una biografia minima. Il personaggio mi ha sempre affascinato e ho voluto raccontare quella che avrebbe potuto essere, nella mia fantasia, la sua formazione prima di diventare colui che tutti conosciamo. Sono molto contento di questo romanzo, Diospolis, l’ho scritto con passione. Il secondo romanzo, Nemesis, ha come protagonista un altro filosofo, Alessandro di Afrodisia: è un giallo storico, se vogliamo. Ho anche accettato il rischio del ridicolo facendo di un manoscritto perduto e ritrovato il motore dell’azione. Facile che mi abbiano spesso detto di essermi ispirato al Nome della rosa o ai romanzi di Margaret Doody. Niente di più falso, ma è lecito al lettore esprimere qualsiasi parere. Il perno reale della storia è invece l’amore, solo accennato qua e là e poi sempre più evidente. Il dramma, le morti, i manoscritti servono solo a condurre due personaggi apparentemente inconciliabili fino a un incontro dagli esiti incerti, ma inevitabile.
Sappiamo di una grande passione per l’Islanda. Come nasce e avrà mai qualche esito nella narrativa?
Sto studiando la lingua islandese e ho sempre avuto una grande passione per le letterature del Nord Europa. Amo studiare le lingue straniere e cercare di cogliere i tratti comuni tra di esse. L’Islanda è un luogo fortemente simbolico, con una letteratura a base prevalentemente narrativa e una lingua ardua e affascinante. Da queste esperienze è nato un poemetto di 900 versi, Poema Minimo, appena uscito per i tipi di Tabula Fati. Non vi sarà uno sbocco narrativo, quei luoghi parlano alle mie emozioni e possono dar luogo solo a versi, ovviamente per me.