La vicinanza con Roma e le caratteristiche morfologiche delle nostre montagne, rappresentarono luoghi perfetti per l’insediamento degli eremiti. Quando l’aspirazione ascetica divenne forte, si abbandonò l’ascetismo domestico per appartarsi ai margini dei villaggi. Una fuga dal mondo, che inizia a svilupparsi intorno al IV secolo.
Sant’Antonio, pur non essendo il primo anacoreta, è considerato il propagatore della figura classica a idealizzata dell’eremita, povertà e privazione come stile di vita, rifuggendo addirittura dal consenso civile, ritenuto anch’esso inquinante per il proprio ascetismo.
L’eremitismo assoluto si rivelò difficile da attuare e si sviluppò un più pratico e logico cenobitismo, un filtro tra la vita contemplativa e il mondo esterno, svincolando gli eremiti dalle preoccupazioni di sostentamento. Il cenobio era realizzato con varie cellette isolate, dove passavano la maggior parte del tempo, un oratorio, come luogo d’incontro per la preghiera comune, erano inoltre presenti strutture varie di servizio per il sostentamento della comunità, come forni, stalle e mulini.
Per ovvi motivi, l’immagine dell’eremita completamente isolato in una grotta è poco veritiera. Era impossibile l’isolamento totale dal consenso civile, oltre gli incontri, che potevano a volte essere scarsi per preghiere collettive e pasti comuni, i monaci dovevano comunque consegnare il frutto del loro lavoro manuale, come anche ritirare il pane necessario per i giorni successivi. L’indipendenza materiale e l’ autosufficienza, era impraticabile in certi luoghi scelti per l’ascesi. L’eremita e il pastore forzatamente eremita, si sono mescolati e alternati nel tempo e nei racconti popolari, esattamente come in molti luoghi abitativi e grotte.
Non è facile, senza esami archeologici, distinguere semplici ricoveri pastorali dalle cellette eremitiche che nel corso dei secoli hanno avuto numerose sovrapposizioni. Una delle differenze determinanti è la costruzione a secco dei ricoveri rispetto alle mura dei luoghi di culto, realizzate invece con legnante, questo probabilmente per la provvisorietà della condizione pastorale, che induceva a spostamenti costanti nei mesi sui monti, determinando scarso interesse per abitazioni che potevano essere abbandonate da un momento all’altro.
Il quadro monastico regionale si rafforzò nei secoli: i nostri monti furono sempre un luogo sicuro dove ripararsi e sfuggire dai nemici del Cristianesimo, come avvenne durante l’invasione longobarda, che distrusse quasi interamente la vita religiosa dell’Italia. Ecco quindi la Majella come montagna santa, luogo sicuro quanto perfetto per la vita ascetica, con i suoi valloni nascosti, ma non isolati, teatri di migrazioni continue, a favorire spontaneamente il nascere, e il successivo mantenimento, di eremi e monasteri a cui monaci davano dignità e cura scrupolosa. Una montagna forte e gentile da sempre un simbolo sacro e materno, luogo di preghiera e contemplazione, che fu scelta, tra i tanti, da Pietro Angeleri poi Celestino V.