Per raccontare la storia del Teatro Pomponi dobbiamo innanzitutto fare uno sforzo d’immaginazione; dobbiamo riandare con la mente a un mondo che non esiste più. Dobbiamo immaginare una Pescara molto diversa dalla città moderna che conosciamo.
Già, perché Pescara era divisa in due dall’omonimo fiume, da un lato Castellammare, un piccolo borgo in espansione, un borgo di pescatori che si allarga dalle colline al mare, composto da appena dodicimila abitanti. Di là dal fiume, Pescara, più opulenta e aristocratica, patria di Gabriele D’Annunzio.
Bisogna inoltre considerare quello che all’epoca rappresentava un teatro. Il cinema era nato da pochi anni, la radio emetteva i primi vagiti e la televisione era ben di là da venire; la maggior parte degli svaghi e degli eventi culturali come li intendiamo oggi, non esistevano. Un teatro era un centro di svago, quindi, ma anche il polo culturale di una città e il punto di ritrovo dei notabili.
Siamo all’inizio degli anni ’20, e Teodorico Pomponi è un uomo d’affari, piuttosto abile, che col commercio ha saputo creare la propria fortuna. “Un paese civile la prima cosa che fa è costruire un teatro”, questa è la famosa citazione attribuita a Pomponi. In realtà a dettare l’iniziativa dell’uomo ci sono anche motivi campanilistici, la vicina Pescara vanta infatti il prestigioso Teatro Michetti, splendida struttura in stile liberty, compresa nel Palazzo Michetti stesso, e motivi d’opportunità. Il teatro infatti, se ben gestito, può rivelarsi una gallina dalle uova d’oro.
Così Pomponi riesce ad assicurarsi una concessione di 29 anni di una prestigiosa area del demanio, di ben 2600 metri quadri, che aveva ospitato il Padiglione Marino.
Dopo una serie di guai burocratici, il teatro viene tirato su in soli due mesi e inaugurato il 22 agosto del 1923, in occasione della Settimana Abruzzese, da Benito Mussolini in persona, che pronuncia dal balcone del Pomponi uno dei suoi ridondanti discorsi. In seguito si tiene l’opera lirica “I compagnacci”.
Il teatro garantisce mille posti, quasi il doppio del Michetti, e pur non avendone la stessa raffinatezza, è dotato di lussuose poltroncine in velluto rosso e fregi in stile liberty; inoltre, la posizione di fronte al mare è assai suggestiva. Ma non basta, Pomponi, saggio affarista, dota il teatro di una prestigiosa gelateria (La Glacia) con tavolini vista mare, di una birreria, e fa sì che vi siano ospitati il circolo Littorio, quello degli impiegati e della stampa, e il liceo musicale. In poco tempo il teatro Pomponi diviene il polo culturale della città, ospitando anche uno dei primi cinema, spettacoli di avanspettacolo e feste di ogni tipo.
“La canzone dell’amore” di Ghirelli, del 1931, è il primo film sonoro del cinema italiano, e raccoglie una folla immensa per una piccola città.
Al “Pomponi” si esibiscono i grandi del tempo, tra cui anche Totò e Peppino, ma siamo giunti ormai al dopoguerra; sono gli anni del boom economico, e, ahimé, della speculazione edilizia. Una cittadina in forte espansione come Pescara si presta particolarmente alle speculazioni dei “palazzinari”, vista anche la forte componente turistica, e lo spazio occupato dal teatro inizia a fare gola. Si vocifera del progetto di un albergo a 12 piani e subito spuntano perizie che denunciano la possibile inagibilità della struttura. Il teatro viene lasciato colpevolmente senza manutenzione e, dopo una serie di tira e molla, il 4 giugno del 1963 ha luogo l’ultimo spettacolo. A settembre il vice sindaco firma l’ordinanza: l’inagibile teatro verrà demolito.
I dubbi sulla perizia, già forti, sembrano trovare conferma al momento dell’arrivo di ruspe e demolitori: la struttura, costruita col cemento armato, verrà giù solo grazie alla dinamite. I sogni di gloria dell’albergo a 12 piani presto tramontano e, a testimonianza di un’operazione quantomeno discutibile, al posto del “Pomponi” vedrà la luce un parcheggio.
La storia del teatro Pomponi giunge così, indecorosamente, al termine. Pescara si doterà di altre strutture, e periodicamente l’idea di un nuovo “Pomponi” verrà sbandierata, ma difficilmente la cultura della nostra città potrà mai essere risanata da questa cicatrice ancora aperta.